NEL NOME DI “MINOFRIO, MISMIZZU, MISGARRU” E DELL’EVASIONE FISCALE

4 Novembre 2016

Paolo Bonacini, giornalista

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Giuseppe Giglio nel 2012 non dichiarava alcun reddito ma era titolare di 1008 conti bancari in 51 diversi istituti di credito. E’ il volto imprenditoriale della ‘ndrangheta emiliana che a Reggio e Parma curava anche l’altra faccia: quella della tradizione e dei riconoscimenti ai dispensatori di morte.

In un precedente articolo parlavamo di testimonianze, al processo Aemilia, che mostrano il doppio volto della ‘ndrangheta.

Da un lato la mafia della finanza e dell’impresa, che mette assieme muscoli e colletti bianchi per generare soldi attraverso le pratiche delle false fatturazioni, delle società cartiere, dell’evasione fiscale, del lavoro nero, dell’usura. Il simbolo per eccellenza di questa capacità affaristica è Giuseppe Giglio, l’unico collaboratore di giustizia emerso tra gli oltre duecento imputati del processo, che tra pochi giorni testimonierà in videoconferenza nell’aula del tribunale reggiano.

E’ entrato nell’orbita dei Grande Aracri dopo aver ‘costruito un impero’ movimentando i camion ricevuti da Fabrizio Arena, figlio del boss Carmine, ucciso in un agguato ad Isola Capo Rizzuto nel 2004 con tre colpi di bazooka necessari per sfondare la carrozzeria della sua Lancia Thema blindata. “Forte di siffatta disponibilità economica’ dice il giudice Francesca Zavaglia nelle motivazioni della condanna al termine del rito abbreviato, ‘unita ad abilità operativa, capacità strategica e grande spregiudicatezza, nel gruppo emiliano dal ‘volto imprenditorialeGiglio non è un mero imprenditore colluso, ma molto di più”.

In quel di più ci sta anche l’essere un eccezionale evasore fiscale. Nel 2012 e in diversi anni precedenti Giglio e la moglie Maria Curcio, anch’essa imputata al processo, non hanno mai dichiarato redditi familiari che risultavano di conseguenza pari a zero. Ma la DIA di Bologna ha accertato che nello stesso 2012 Giglio era il reale proprietario o titolare di “16 unità immobiliari intestate a persone fisiche, 229 unità immobiliari riconducibili a società, 39 polizze assicurative, 10 società di cui deteneva partecipazioni e, dulcis in fundo, 1008 rapporti bancari aperti con 51 diversi istituti di credito”. Non male per una famiglia che stando alla dichiarazione dei redditi è indigente e nullatenente.

C’è però anche l’altro volto, dicevamo, che caratterizza l’operato della ‘ndrangheta: quello legato “all’immaginario del crimine mafioso, con i suoi beceri linguaggi, i riti dell’appartenenza e della fedeltà, gli atti della intimidazione e della violenza”. In particolare la morte, inflitta alle persone colpevoli di essersi fatte almeno un nemico importante in Famiglia.

Tre dispensatori di morte sono venuti a testimoniare a Reggio Emilia il 28 ottobre 2016; tutti e tre scortati da un consistente servizio d’ordine, con i volti nascosti al pubblico e agli imputati dietro le sbarre. Sono tre collaboratori di giustizia, chiamati dal Pubblico Ministero per raccontare di faide e spargimenti di sangue interni alle mafie, ma anche di riti e poteri legati all’affiliazione in Emilia.
I primi due sonoAlessandro D’Amato, 45 anni e Saverio Loconsolo, 37 anni, entrambi originari di Melfi, in provincia di Potenza, ed entrambi basilischi, appartenenti cioè alla mafia lucana storicamente alleata con le famiglie della ‘ndrangheta Macrì e Sarcone, insediate rispettivamente a Siderno e Cutro in Calabria. Con il processo Aemilia c’entrano perché vennero a Reggio Emilia e a Parma, alla fine degli anni Novanta, per ricevere un passaggio di grado secondo i riti della ‘ndrangheta. A battezzarli fu Nicolino Sarcone e alla cerimonia parteciparono anche il fratello Gianluigi e Alfonso Diletto. Loconsolo da picciotto d’onore fu elevato a camorrista, D’Amato fu promosso da camorrista a sgarrista, un tempo il grado più elevato col quale si poteva assumere il comando di una sede locale. Tutto attraverso la cerimonia arcaica che prevede un taglio a croce sul pollice per versare una goccia di sangue e il richiamo ai tre antichi cavalieri Minofrio, Mismizzu e Misgarru che (si dice) tagliarono la testa a san Michele Arcangelo.
In un altro viaggio a Reggio D’Amato e Loconsolo furono accompagnati da Marco Ugo Cassotta, capo dell’omonima cosca che faceva il bello e il cattivo tempo a Melfi: un fortino inespugnabile, come la definì il giornalista vittima di mafia Giancarlo Siani. Portarono in regalo a Sarcone una Lancia Delta Integrale 16 valvole con un piccolo cadeau aggiuntivo nascosto nel cofano anteriore: una mitraglietta Skorpion da 20 colpi. In cambio i Cassotta volevano aiuti e informazioni per ammazzare un esponente della cosca rivale, Vincenzo Di Muro, che pareva si fosse nascosto in Emilia Romagna. Furono accolti con tutti gli onori e poi tornarono in treno perchè la Delta HF rimase a Reggio.

Lei di cosa si occupava nel clan Cassotta?” chiede il PM Mescolini ad Alessandro D’Amato. “Io ero uno dei capi del gruppo armato. Coordinavo gli omicidi… E li facevo anche (gli omicidi)”.

Il pentito non ricorda sul momento quante persone ha ucciso, ma alcuni dettagli sì. Ad esempio quando assieme ad un collega nel 1997 crivellò di colpi con una pistola e un fucile a canne mozze Pinuccio Gianfredi, malavitoso e informatore dei servizi segreti. I colpi di rimbalzo uccisero anche la moglie Patrizia seduta al suo fianco. Nei seggiolini posteriori c’erano i due figli minori che videro tutto. Con una calma agghiacciante D’Amato ha confermato anche di avere ucciso nel 2007 il suo capo Marco Ugo Cassotta, con il quale i rapporti si erano deteriorati: “Se io non lo avessi ucciso, lui avrebbe ucciso me”. Lo convinse a seguirlo in un casolare abbandonato dove diceva fossero nascoste delle armi e quando fu là gli sparò quattro colpi in testa con una P38.

Non fu però lui a fare a pezzi il corpo e poi a bruciarlo: quella fu opera diretta del clan Di Muro al quale aveva consegnato il cadavere.
L’altro pentito ascoltato dal tribunale reggiano non è da meno. Saverio Loconsolo nel 2010 era considerato uno dei 100 latitanti più pericolosi d’Italia; venne arrestato in una spiaggia di Santo Domingo e in seguito iniziò a collaborare con la giustizia. Negli anni Novanta era un luogotenente della famiglia Cassotta. “Lei di cosa si occupava?” chiede anche a lui il Procuratore Antimafia. “Estorsioni, commercio di droga, omicidi” è la risposta. E’ Loconsolo che nel 2008 ha ucciso Giancarlo Tetta, uomo al soldo del clan guidato da Angelo Di Muro: “Prima gli sparai un colpo al petto, poi gli scaricai l’intero caricatore in testa”. L’omicidio di Tetta era la prima risposta alla brutale uccisione di Marco Ugo Cassotta: nessuno ancora sapeva che il killer, D’Amato, era un traditore della stessa Famiglia.
Il terzo collaboratore di giustizia che ha testimoniato a Reggio il 28 ottobre è un nome tristemente noto in città: Paolo Bellini, uomo al centro di trame nere ed oscure che hanno insanguinato la città negli ultimi quarant’anni.Quando la difesa gli chiede se è stato lui ad uccidere Alceste Campanile il presidente Caruso si arrabbia e zittisce l’avvocato: “La domanda non è ammessa perché non è pertinente con questo processo!”. Ma Bellini, che di quell’omicidio si era autoaccusato, ha già risposto con un “” che tutti in aula hanno udito.

E’ qui a testimoniare sui fatti di sangue che segnarono Reggio fino ai primi anni del Duemila per il controllo del territorio da parte della ‘ndrangheta. Lui aveva conosciuto in carcere a Prato Nicola Vasapollo ed era diventato suo consigliere dopo il ritorno in libertà. Poi era passato ad altro incarico: killer per la Famiglia che aveva deciso di rendersi autonoma dal clan Dragone, scatenando la guerra. L’omicidio di Nicola Vasapollo a Pieve Modolena nel 1992 e quello di Antonio Dragone nel 2004 a Cutro sono i due estremi di una resa dei conti che ha portato all’avvento dei Grande Aracri e ai delitti mafiosi di cui si tratta in questo processo. Bellini era legato ad Antonio Valerio, oggi imputato di Aemilia e allora uomo di fiducia dei Vasapollo. Ma anche in questo film c’è il traditore, che secondo Bellini è proprio Valerio, passato coi Dragone e infine approdato ai Grande Aracri. “Partecipò alla uccisione di Nicola Vasapollo; quando l’ho saputo è stato per me un duro colpo, perché eravamo molto amici”.
Anche Bellini non ricorda con precisione quante persone ha ucciso: “Tutte quelle per cui sono finito sotto processo” dice. Poi aggiunge che avrebbero potuto essere anche di più se l’organizzazione degli attentati fosse stata più rigorosa. Come quando andò a Cutro con gli armamenti necessari e un’auto blindata per eliminare Nicolino Grande Aracri e chiunque si trovasse con lui a cena un certo giorno in un certo posto. Ma il boss non si presentò.
Io ero abituato a maggiore serietà; il mio lavoro io lo faccio sempre bene… Nel bene e nel male”.
Questa frase Bellini poteva risparmiarsela. Lo accomuna a D’Amato e Loconsolo l’idea che forse il loro era un lavoro; diverso da tutti gli altri, certo, ma con gli stessi elementi di dignità professionale.
Si sbaglia di grosso.

di Paolo Bonacini

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