LA GHIAIA ERA NERA: LE CONFESSIONI DI GIGLIO, IMPRENDITORE (PENTITO) COME TANTI IN EMILIA
Paolo Bonacini, giornalista
LA GHIAIA ERA NERA
Le confessioni di Giuseppe Giglio: un imprenditore (pentito) come tanti in Emilia.
Martedì 9 febbraio 2016, alle ore 11,30 circa, il Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, dott. Marco Mescolini, e la collega dott.ssa Beatrice Ronchi, passano i cancelli del carcere di Spoleto per andare ad ascoltare una persona che ha chiesto di parlare con loro.Si tratta di Giuseppe Giglio detto Pino, 49 anni, originario di Crotone e residente a Montecchio. Sposato con figli, diploma da tecnico, alcune case in proprietà e una buona provvista economica, è un imprenditore attivo in vari rami collegati all’edilizia; in particolare nel trasporto di inerti. Esercita la sua attività nel comune di Gualtieri, movimentando sia tonnellate di ghiaia che fiumi di denaro, il più delle volte in nero o attraverso false fatturazioni.
Non è mai stato condannato ma è attualmente detenuto in custodia cautelare secondo il regime 41 bis del carcere duro, che si applica ai personaggi di spicco delle cosche di stampo mafioso. Giuseppe Giglio è imputato nel processo Aemilia: il suo nome figurava nell’elenco dei 117 per i quali è scattato l’arresto su ordine della Procura la notte del 28 gennaio 2015.
Ha scelto il rito abbreviato e ancora non sa, perché le sentenza arriverà solo il 22 aprile, che verrà condannato a 12 anni e sei mesi dal giudice Francesca Zavaglia. Giglio ha deciso di collaborare con la giustizia, di vuotare il sacco, e vuole farlo lontano da orecchie indiscrete, tanto che al colloquio con i magistrati è assistito da un difensore d’ufficio del Foro di Perugia: “Lei non vuole la presenza del suo avvocato di fiducia qui oggi?” chiede la dottoressa Ronchi. “No, no… Perché i miei avvocati hanno anche altri imputati nel processo…”.
Si sa mai che vadano a riferire quello che sto per dire, lascia intendere. Poi inizia la sua deposizione spontanea, il racconto di una vita esemplare, ma non certo sul versante della rettitudine: esemplare perché illustra benissimo l’indissolubile legame tra le pratiche malavitose che la ‘ndrangheta cerca di impiantare al nord ed il terreno fertile di bisogni ed interessi illeciti senza il quale le radici non attecchirebbero. “La mia vita imprenditoriale è iniziata da giovanissimo” dice “perché compiuti i diciotto anni ho fatto la partita IVA”.
E’ iniziata con l’acquisto di un camion che usava per “andare su e giù per la Calabria” e poi per i trasporti “tra il nord e il sud, fino a quando ho fatto la mia prima campagna delle barbabietole su nel bolognese a San Giovanni in Persiceto”. Giglio decide così di fermarsi in Emilia Romagna e diventa un battitore libero, un self made man, come lo definisce la Procura della DDA negli atti del processo Aemilia. Si trasferisce in provincia di Parma dove lavora col suo camion per la impresa Santi Italo & Figli. Che all’inizio degli anni novanta fa parte di una associazione temporanea d’impresa guidata dal colosso Pizzarotti con il compito di costruire la tangenziale sud della città ducale.
C’era molto lavoro a quei tempi: “Sono stato anche con la ditta Bertoncini, sempre di Parma, perché Santi è finito invischiato in tangentopoli. Anche se devo dire che già all’epoca avevamo iniziato un percorso di… una superfatturazione diciamo. Cioè facevo dieci di lavoro e ne fatturavo venti, o trenta. Sia con Italo che con Bertoncini. Ma parliamoci chiaro, non c’è azienda al nord che non… perché il meridionale è avvantaggiato a prendere i lavori, i subappalti, dott. Mescolini, solo per questo motivo. Perché l’impresa appaltatrice sa che si può appoggiare diciamo per una super fatturazione, come lei avrà capito”. “Quindi scusi” gli chiede il PM, “queste sovrafatturazioni che lei emetteva, poi in parte le restituiva?” “Sì, io restituivo l’imponibile e mi tenevo l’IVA” Mescolini: “E non ci guadagnava niente lei?” “No, io ci guadagnavo, perché che cosa succedeva? Succedeva che poi trovavo dei ragazzi, dei giovani artigiani, che mi facevano delle fatture dove magari prendevano il 2%, il 3%…” “Così lei a sua volta scaricava” “Scaricavo con una controfatturazione… In qualche modo diciamo che ho anche agevolato queste aziende…” Ha fatto del bene Giglio, secondo la logica del suo racconto.
Sia alle grandi imprese di Parma che grazie a lui si costruivano un tesoretto in nero, sia ai giovani artigiani cui riconosceva una percentuale esentasse in cambio di false fatturazioni. Ed ha fatto del bene soprattutto a sé stesso, stando all’immagine che di lui offre in interrogatorio Vincenzo Marino, uomo al soldo della cosca Vrenna Corigliano Bonaventura: “Si dice che Pino era salito a Reggio Emilia con una Fiat 1 ed era ritornato giù con una Ferrari”. La scure di tangentopoli rende però difficile continuare sulla vecchia strada e Giuseppe Giglio decide di tornare a casa, nella sua Calabria, dove assieme all’amico Emilio Pupa apre una discoteca sotto le stelle nella città di Crotone. “E’ andata in onda anche su Canale5, e la prima sera abbiamo fatto cinquemila persone, con un incasso da 300 milioni. Però già la seconda sera… è venuta la Procura e giustamente ci ha sequestrato la discoteca. Perché non c’erano le licenze stampate. E da lì sono partite una serie di indagini che io ho avuto dieci anni di processi per corruzione e l’assessore per abuso d’ufficio perché poi ci hanno dato le autorizzazioni sopra un terreno agricolo”. Stop. Meglio guidare i camion al nord. E così nell’aprile ’96 Giglio riparte e si sistema a Gualtieri, lavorando per diverse aziende del settore costruzioni, dalla F.lli Baraldi di San Prospero vicino al Secchia alla Acerbi di Campagnola, alla Cottafava di Modena. La ghiaia per queste imprese la va a caricare nelle cave di Ermes Prospero, gardesano di Peschiera proprietario anche di un grosso villaggio turistico in riva al lago che riserverà gatte da pelare con la magistratura pure al sindaco del paese. “Nella cava conosco il figlio di Ermes, Mauro Prospero, che però non andava d’accordo col padre e mi propose che avrebbe avuto la possibilità di vendermi del materiale di nascosto da lui. Diciamo senza fattura e senza niente. Ad un prezzo tra l’altro… all’epoca la ghiaia costava tra le settecento e le ottocento lire e il figlio ce lapropose a quattrocento. Quindi c’era una convenienza non solo di IVA, perché comprando in nero si poteva, ma c’era anche una convenienza del 50% di risparmio”.
Una quantità infinita di ghiaia da rivendere nei cantieri a prezzi stracciati, arrivando il sabato con i cassoni carichi e andandosene via con il rimorchio vuoto e le tasche piene. Giuseppe Giglio e i suoi nuovi colleghi di lavoro incontrati e conosciuti a Gualtieri, Antonio Muto figlio di Benito e Salvatore Muto figlio di Gerardo, faranno i soldi in poco tempo con questa attività. “Andavamo via con dei camion pieni da cinquanta tonnellate. Se un trasportatore normale, o una cooperativa, si faceva pagare la ghiaia portata giù in cantiere a Modena millecinquecento lire, noi magari facevamo mille e quattro. Però noi l’avevamo pagata 400, contro gli 800 degli altri. Se un altro camion faceva, per dirle, 500mila lire di fatturato, noi ne facevamo di più: ottocento o novecento. E in più ci guadagnavamo anche l’IVA. E’ così che ho cominciato con la mia ditta individuale, che ho chiamato col mio nome: la Giglio srl”.
Chi ben comincia è a metà dell’opera, ma Giglio è anche più avanti, stando sempre alle efficaci rappresentazioni di Vincenzo Marino: “Siamo stati in galera tre anni dal 2004 al 2006 e in quei tre anni Pino Giglio ha costruito un impero”.
Le confessioni di Giuseppe Giglio ai PM Mescolini e Ronchi sono proseguite per sei mesi, termine massimo previsto dalla legge, fino ad agosto 2016, ma già da questo primo giorno di “apertura della memoria alla giustizia” emerge una morale abbastanza evidente: la ‘ndrangheta ancora non si vede, lavora parallela all’imprenditore col camion venuto da Crotone ma non lo ha intercettato e coinvolto a tempo pieno nelle proprie trame. Eppure Giglio ha trovato facilmente in Emilia Romagna la strada per i profitti facili ed illeciti. Lo hanno aiutato imprenditori ed artigiani di casa nostra nati tra le sponde del lago di Garda, quelle del Secchia e quelle dell’Enza. Non importa se esperti od alle prime armi, se titolari di grandi imprese o di piccole aziende: tutti disposti comunque a falsificare, ad omettere, a nascondere. In sostanza ad alterare il mercato, a danno di chi le regole le rispetta chiedendo semplicemente di gareggiare alla pari. E non siamo che all’inizio.
di Paolo Bonacini