GRANDE COME DUE CITTA’ IL VALORE DEI BENI CONFISCATI ALLA ‘NDRANGHETA

6 Ottobre 2016

Paolo Bonacini, giornalista

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E’ GRANDE COME DUE CITTA’

Il valore dei beni confiscati alla ‘ndrangheta è più del doppio della spesa corrente annuale del comune di Reggio Emilia.

Ma gestire quel patrimonio e riportarlo alla comunità non sarà semplice.

Nel paese di Cutro, tra la sede del Comando dei Carabinieri e la sede del “Quotidiano della Calabria” ci sono sì e no 180 metri in linea d’ara. Circa a metà strada, nel magazzino di una casa a due piani che si affaccia su via Serravalle, si svolge una riunione nella seconda metà del 2011 che interesserebbe molto ad entrambi: militari e giornalisti.

La data esatta non è certa perché Giuseppe Giglio, che sta raccontando l’incontro ai procuratori dell’antimafia Mescolini e Ronchi la mattina del 3 marzo 2016, non riesce a ricordare se era vestito “a manica corta o a manica lunga”. Il pentito della ‘ndrangheta, uscito dal rito abbreviato del processo Aemilia con una condanna a 12 anni e sei mesi, ricorda invece molto bene le tre persone che oltre a lui erano presenti quel giorno. Il primo è Nicolino Grande Aracri, 52enne boss dell’omonima cosca, da pochi mesi fuori di galera. Ha invitato lì a Cutro un imprenditore di 50 anni originario del comune ma residente con la famiglia a Montecchio: Palmo Vertinelli.

E’ titolare di un consistente patrimonio di appartamenti, autorimesse e quote societarie di numerose imprese, alla faccia della dichiarazione dei redditi da quasi indigente che compila. Anche la quarta persona risiede a Reggio Emilia ma di “Ediltetto”, questo è il suo soprannome, Giglio aveva solo sentito parlare senza averlo mai incontrato: “Sentivo parlare di Ediltetto come una persona, diciamo, imprenditoriale molto seria. Poi me la sono ritrovata là. Non lo conoscevo, però l’ho visto con un orologio pieno d’oro e pieno di diamanti e così mi sono chiesto chi era, insomma. Poi si è presentato, e si è presentato come Gualtieri Antonio”. Secondo la DDA è uno dei Magnifici Sei: i promotori e dirigenti dell’organizzazione di stampo mafioso che opera in Emilia Romagna. Ha 50 anni e vive nella campagna a sud di Reggio che sale verso la pedecollina. Giglio riferisce addirittura che quel giorno a Cutro Grande Aracri indicò Gualtieri come il suo punto di riferimento su al nord: l’uomo in grado di decidere, per qualsiasi affare e qualsiasi esigenza, in assenza del boss.

Ma Nicolino Grande Aracri di punti di riferimento amava averne sempre più di uno, anche per ottenere informazioni da fonti diverse, per confrontarle, per mostrare sempre di conoscere e capire… come si conviene ad un vero capo. Gli altri cinque dello Stato Maggiore sono Nicolino Sarcone, Alfonso Diletto, imparentato con i Grande Aracri per parte di madre, Michele Bolognino, Francesco Lamanna e Romolo Villirillo, caduto in disgrazia e sostituito proprio da Gualtieri quando Grande Aracri scopre che fa la cresta sui ricavi della cosca.

Lo spiega bene lo stesso Giglio ai PM “Ha gestito per qualche anno gli affari di Nicolino Grande Aracri, ma poi cosa è successo? E’ successo che il Villirillo, diciamo, se da lei prendeva cento, nella famiglia ne portava solo cinquanta. E dopo alcuni anni, quando sono emerse queste cose e Grande Aracri è uscito (dal carcere), sono cominciati i problemi per Villirillo”.

Giglio, nell’organigramma costruito dall’antimafia, non figura in questa lista dei capi; è un gradino più sotto, tra i cosiddetti organizzatori delle attività e delle strategie, eppure a Cutro ad incontrare il boss ci tornerà ancora e sempre in compagnia di Magnifici, prima Diletto e poi Bolognino. Che lo difendono quando mostra buona volontà nel saldare un grosso debito da 500 mila euro contratto del suo ex socio Paolo Pelaggi, finito in carcere prima di poter pagare, o confidano nelle sue aziende, nella sua capacità di far girare i soldi senza lasciare tracce imbarazzanti, quando gli chiedono fideiussioni bancarie per acquisti che poi non verranno comunque pagati.

Ma Giglio ha una sensibilità speciale che lo guida lontano dai rischi, che gli dà la forza per rifiutare anche richieste che arrivano dai vertici della cosca. Dice “No grazie” quando lo invitano ad avventurarsi nei subappalti della Salerno Reggio Calabria, perché intuisce che ogni chilometro e mucchio di ghiaia lungo quell’autostrada sarà passato ai raggi x dall’antimafia: “Guarda, so che nessuna azienda è riuscita a finire il lavoro, perché hanno avuto tutte l’interdittiva prima di iniziare i lavori, quindi… per me, tenetemi fuori dal primo momento”.

E quando Alfonso Diletto lo invita a partecipare alla famosa cena con il consigliere di Forza Italia Giuseppe Pagliani all’Antichi Sapori di Reggio Emilia, è di nuovo “No grazie”, perché immagina che ci saranno troppi occhi di giornalisti e di forze dell’ordine puntati su quel ristorante quella sera: “Gli ho detto: guarda, a me non interessa”.

Dai verbali di Aemilia, dagli incontri a Cutro che avvengono sempre in luoghi diversi, dalle testimonianze che si susseguono nell’aula del Tribunale a Reggio Emilia, emerge una ‘ndrangheta dal doppio volto. Il primo è quello legato all’immaginario del crimine mafioso, con i suoi beceri linguaggi, i riti dell’appartenenza e della fedeltà, gli atti della intimidazione e della violenza, il legame indissolubile tra la casa madre al sud e le locali al nord. Ma c’è anche un secondo volto che in parte oscura e contraddice il primo: è quello dell’autonomia, del conflitto tra uomini e gruppi, dell’abbattimento delle barriere tra legalità e illegalità, dell’incontro tra muscoli e colletti bianchi. Ed infine dell’uso del denaro e delle sue spesso assurde leggi, più che delle armi, per generare altro denaro. Che alla fine corre a fiumi e costruisce patrimoni ingenti, tanto da creare il paradosso dei seri problemi che una giustizia efficiente, in grado di arrestare i malviventi e sequestrare i loro averi, scarica sulla gestione dei beni confiscati.

Al solo Palmo Vertinelli del primo incontro a Cutro, che nella scala gerarchica sta tra i partecipanti, più in basso di Giglio, la Guardia di Finanza, su mandato del procuratore Grandinetti, sequestra beni per oltre 10 milioni di euro tra Reggio, Parma e Crotone nel gennaio del 2015.

Poi altri 30 milioni riconducibili alla sua famiglia nell’ottobre dello stesso anno. Si tratta di decine e decine di appartamenti, società, autorimesse, conti correnti, terreni; in buona parte a Montecchio dove Palmo risiede. Nel novembre del 2013 altri 3 milioni di euro tra magazzini, appartamenti, conti bancari, aziende e automobili, tutti riconducibili al fratello di Nicolino Grande Aracri, Francesco, erano finiti sotto sequestro preventivo e tre mesi fa sono stati definitivamente confiscati.

Francesco Grande Aracri ha oggi 62 anni ed è stato condannato con sentenza definitiva per associazione mafiosa nel 2008; vive a Brescello dal 1987 ed è l’uomo che il primo dei Coffrini sindaci, Ermes, difese davanti al Tar contro l’esproprio di alcuni suoi immobili in provincia di Catanzaro. Mentre il secondo, Marcello, figlio di Ermes, lo definì in una intervista a “Cortocircuito” “gentilissimo, uno molto tranquillo, molto composto, educato”. Proprio una brava persona, viene da capire.

Nel settembre del 2014 tocca ai beni di un altro dei capi, Nicolino Sarcone, con sequestri per quattro milioni di euro a Vezzano sul Crostolo, Montecchio, Bibbiano e pure in Lituania. Ancora all’inizio del 2015 la Guardia di Finanza di Cremona, coordinata dalla DDA di Bologna, sequestra tra l’Emilia, la bassa Lombardia, il Veneto e la Calabria, 78 appartamenti, 106 garage e box, 5 capannoni industriali, 15 terreni, 27 società di capitali, per un valore prudenziale di oltre 20 milioni di euro. Le manette scattano per altri personaggi reggiani della cosca: Floro Vito Giuliano e Carmine Belfiore che vivono in città, Floro Vito Gianni residente ad Arceto di Scandiano, Agostino Donato Clausi che lavora tra Reggio e Crotone.

Lo stesso inverno tocca anche agli appartamenti ed alle società di Giuseppe Giglio, Carmine Belfiore, Antonio Silipo. E via così, fino all’estate quando arriva la botta più grossa ai beni della ‘ndrangheta reggiana, assieme all’arresto dei capi Bolognino e Diletto e di altre sette persone. Nove società registrate a Brescello, Montecchio, Reggio, Modena, Parma, Roma, Malta; poi altri conti correnti, una discoteca, attività commerciali. Valore complessivo: 330 milioni di euro.

Ma che fine fanno questi soldi e beni sequestrati, e chi li gestisce sia sotto il profilo tecnico che sotto quello giuridico? Il 24 maggio scorso il Presidente del Tribunale di Reggio dott. Caruso ha istituito in via d’urgenza la Sezione delle Misure di Prevenzione Patrimoniale Antimafia che deve gestire la delicata materia. E’ composta da tre giudici, sotto la direzione della presidente coordinatrice Angela Baraldi, e di un quarto membro ancora da definire visto il numero ristretto dei magistrati operativi a Reggio. L’elenco che sta sopra, dei beni sequestrati alla ‘ndrangheta, fa un totale che si aggira sui 400 milioni di euro di valore. Un patrimonio enorme da curare e da restituire, se e quando possibile, alle disponibilità della comunità scippata. Una cifra, per capirci, superiore a due anni dell’intera spesa corrente del comune capoluogo di Reggio Emilia. Auguri, dottoressa Baraldi.  

di Paolo Bonacini

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