ASPETTANDO LA MEHARI DI GIANCARLO SIANI: 190MILA PAGINE E UN RAGAZZO UCCISO

28 Dicembre 2016

Paolo Bonacini, giornalista

paolo-bonacini2

A gennaio, la Citroen Mehari del giovane giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra a Napoli nel 1985, arriverà a Reggio Emilia per tre giorni di iniziative sui temi della legalità e della lotta alle mafie. E incrocerà il grande processo Aemilia con la ‘ndrangheta alla sbarra.

Non si può morire quattro giorni dopo il proprio 26esimo compleanno.  A Giancarlo Siani è successo e a portarlo via non è stato un incidente, non è stata una malattia o una fatalità. Al “Mattino” di Napoli, giornale sul quale Giancarlo scriveva corrispondenze da Torre Annunziata, la ricordano così:
“E’ la notte del 23 settembre 1985 e in via Chiatamone sono passate da pochi minuti le 22.00. Il picchiettio sulle macchine da scrivere è terminato ma serve una piccola notizia per completare la pagina. Il redattore alza la cornetta e chiama il 113 con un rituale che è diventato parte del lavoro di chi fa la cronaca nera del primo giornale di Napoli. La domanda è la solita: ‘C’è qualcosa per noi?’. Un sequestro di sigarette, magari di droga, ma anche una rissa tra balordi va bene, servono solo poche righe per riempire un piccolo buco tra le colonne; il grosso è stato già fatto. Dall’altra parte, il poliziotto risponde imprevedibilmente con un’altra domanda: ‘Dottò, conoscete Siani? E’ stato ammazzato nella sua auto a piazza Leonardo al Vomero’. Così arrivò in redazione la notizia dell’uccisione. L’ansia di raggiungere il luogo del delitto, sperando che si trattasse di un equivoco, avvolse tutti i colleghi della cronaca nera. Dopo venti minuti il crollo di ogni illusione; tra le macchine della polizia e dei carabinieri a piazza Leonardo c’era una Citroen Mehari verde: il capo riverso sul volante, la guancia sinistra segnata da un rivolo di sangue. Giancarlo Siani era stato assassinato.”

Lo hanno ucciso con dieci colpi di pistola alla testa, utilizzando due Beretta 7,65. Lo hanno ucciso una seconda volta, racconta la biblioteca comunale di Cercola in provincia di Napoli, che oggi porta il suo nome, mettendo in giro la voce “che l’avevano ammazzato per una questione di beghe personali. Si è inquinato tutto, non si è voluto vedere che invece era un giornalista serio e pulito.”
Il suo ultimo articolo parlava di ragazzini di tredici anni utilizzati come corrieri di droga: i “muschilli”, li chiama Giancarlo. “Sono agili, si spostano da un quartiere all’altro e non danno nell’occhio, sfuggono al controllo di polizia e carabinieri. Ma soprattutto sono minorenni: anche se trovati con la bustina d’eroina in tasca non sono imputabili. Ed ecco che il meccanismo perverso dello spaccio di droga li coinvolge”.

Giancarlo Siani, dirà alfine la sentenza della Corte di Cassazione, è stato ucciso dai killer dei boss Nuvoletta e Baccante, infastiditi dai dettagli che il giornalista aveva raccolto e scritto sull’arresto del super latitante Valentino Gionta, il capo storico tradito e consegnato alla polizia dai suoi stessi compari. Sono stati tutti condannati all’ergastolo ma Giancarlo non ha più scritto, la sua Citroen Mehari da quel 23 settembre è rimasta senza autista.

“Il viaggio legale” è un viaggio lungo la via Emilia, da Piacenza a Ravenna, che rimette in moto la Mehari di Giancarlo, la riporta per strada a parlare di mafia e di lotta alle mafie. Quattro mesi di iniziative, di incontri, di memorie e di cultura, per coinvolgere la comunità della nostra regione attorno ad una idea semplice ed irrinunciabile: solo l’impegno collettivo, il fronte comune e consapevole, possono vincere i disvalori estremi dei quali si alimenta la criminalità organizzata: illegalità, minacce, estorsione, violenza, morte, omertà. Le singole persone, ci insegnano le tante storie raccontate al processo Aemilia, finiscono normalmente per soccombere alla paura; quelle che non rinunciano alla rettitudine anche a rischio della propria vita, come Giancarlo Siani, ci esortano a lottare assieme per difendere e tutelare tutti, compresi i più deboli.
La Mehari percorre in questi mesi la via Emilia e si ferma nelle città dove la ‘ndrangheta ha radicato negli ultimi decenni le proprie attività. Si ferma dal 19 al 21 gennaio 2017 a Reggio Emilia, dove c’è il cuore di questa presenza malavitosa trapiantata al nord e nel cui tribunale si svolge, ormai con una cadenza che sembra senza fine, il più grande processo alla ‘ndrangheta mai celebrato in Italia.

Ci dicono gli avvocati che gli atti di Aemilia superano già le 190 mila pagine: se ogni foglio è spesso un decimo di millimetro siamo ad una torre di carta alta 20 metri. Ed ogni mese si aggiunge un nuovo piano. Il linguaggio della giustizia prevede garanzie e tutele sacrosanti in uno stato di diritto, per cui ben venga questa montagna di carta dalle cui fondamenta si arriverà alla sentenza di primo grado nel processo ordinario forse tra un anno. Ma il rito abbreviato concluso in primavera una verità già la certifica, con decine di condanne e cinque delle sei persone identificate come i capi della cosca punite con pene severissime per la loro attività mafiosa.
Restano comunque aperte questioni che interrogano tutti noi: cittadini, istituzioni, imprese, rappresentanze sociali. Perché la verità giudiziaria è solo un aspetto del problema e c’è necessita di discutere e mettere a fuoco una verità storica che va oltre i linguaggi e le regole del processo, che ad esso scorre nel tempo parallela e che attiene ai comportamenti della nostra comunità in tutte le sue articolazioni.
C’è la necessità di confrontare l’idea che abbiamo del rapporto tra legalità e illegalità, che significato diamo a queste parole, quali sono le cattive pratiche e i punti critici che portano alla inevitabile sovrapposizione. Dobbiamo chiederci se la malavita organizzata raggiunge i livelli di penetrazione che le dimensioni del processo ci raccontano indipendentemente dal contesto che trova o se ci sono stati, ci sono, radicati in pezzi del nostro tessuto sociale, economico, istituzionale, finanziario, elementi di responsabilità, o di tolleranza, o di omertà, e salendo ancora di connivenza e di complicità, nel decidere e pianificare le risposte ai ricatti e alle offerte della criminalità organizzata. E’ corretto ritenere la cosca il solo soggetto attivo (sia che offra, sia che intimidisca, sia che penetri alla propria maniera nel mercato del lavoro e d’impresa) o c’è anche una domanda di soluzioni facili ed economicamente vantaggiose, benchè illecite, che arriva dal nostro territorio? E che finisce per attrarre, volente o nolente, proprio chi ha meno scrupoli nel costruire soluzioni facili e immediate, benchè violente ed illegali?

E’ di questo che attorno alla Meahari di Giancarlo Siani si parla e si parlerà negli incontri sulla via Emilia; perché se “Viaggio Legale” deve essere, come propone la CGIL, dobbiamo avere l’umiltà e il rigore di cercare dove ha fatto acqua il sistema, dove si sono aperte le falle che hanno consentito le infiltrazioni malsane capaci di contaminare il tessuto buono che c’era. Solo così si potranno costruire rimedi efficaci per il futuro.
Il programma della tre giorni reggiana è molto ricco di iniziative (lo trovate sul sito della Camera del Lavoro) e ci consentirà di capire anche cosa accade oltre i nostri labili confini provinciali, con il racconto del processo Pesci, che interessa le infiltrazioni nel mantovano con 14 persone alla sbarra, e del processo Kyterion a Catanzaro dove in novembre sono stati inflitti con la sentenza del rito abbreviato oltre due secoli di reclusione ai 25 condannati. La cosca di Nicolino Grande Aracri è la grande protagonista di tutte e tre le inchieste giudiziarie; il boss di Cutro esce da Kyterion con altri 30 anni di carcere da aggiungere ai precedenti, per l’uccisione di Antonio Dragone nel 2004, e noi reggiani non possiamo dimenticare che quella storia lanciò la sua famiglia e gli adepti alla guida incontrastata delle attività di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.

Il 20 gennaio presso la Camera del Lavoro di Reggio saranno i cronisti che seguono per differenti testate i tre processi a raccontarcene i dettagli e l’Ordine Nazionale dei Giornalisti ha deciso di inserire il convegno tra le iniziative di aggiornamento in campo professionale che consentono di ottenere crediti formativi.
E’ una buona cosa, perché anche la nostra categoria ha da interrogarsi sui propri doveri e sulle proprie lacune in materia di lotta alle mafie. Farlo davanti all’auto di un giornalista che ha dato la vita per quei doveri sarà un motivo in più per prendere sul serio il tema.

La tre giorni reggiana della Mehari inizerà il 19, nel piazzale del tribunale, dove ci saranno gli studenti delle scuole che imputati e avvocati difensori non volevano in aula e che invece grazie alla decisione in primavera del collegio giudicante rendono viva ogni udienza. Alle dieci, a poca distanza dal tribunale, nel Palahockey di via Fanticini, i nostri ragazzi ascolteranno il racconto della vita di Giancarlo Siani dalla bocca del fratello Paolo.

La vita di un ragazzo come loro, prima che di un giornalista. Ucciso 31 anni fa quando ancora era curioso di come va il mondo; ucciso perché dava fastidio alla camorra.

di Paolo Bonacini

Altezza righe+- ADim. carattere+- Stampa

Cerca in archivio per parola chiave

Archivi