AL PROCESSO AEMILIA LA SPOON RIVER EMILIANA

19 Ottobre 2016

Paolo Bonacini, giornalista

paolo-bonacini2

Un reggiano col vizio del gioco che scappa in America perché ha paura di testimoniare in tribunale contro gli usurai ai quali si è rivolto per pagare i debiti; un altro che lascia sola la moglie e se ne va in Puglia dove è inseguito dalle telefonate: “Pezzo di merda, non scappare!”.

Un albanese che cerca di costruirsi in Italia una vita dignitosa da imprenditore ma sceglie la persona sbagliata come socio e quando perde tutto è raggiunto anche dal suo passato, nel quale spunta una condanna per rapina. Una donna Beata di nome ma condannata nella vita a subire le minacce di sconosciuti che si presentano nella sua azienda agricola dicendole: “Guarda che senza una mano non si regge il rastrello”.

Un ex vigile modello della città, ma anche ex carcerato per traffico di cocaina, che ritrova a Reggio compagni di galera ai quali chiede prestiti che poi fatica a restituire e il locale che gestisce a Pieve Modolena, il suo tentativo di riscatto, va a fuoco.

Personaggi che sembrano uscire dalla penna di uno scrittore, come nell’Antologia di Spoon River. Protagonisti di vicende che sui verbali delle udienze, al processo Aemilia, divengono epitaffi di una vita costellata di errori ed inciampi. Ma anche segnata dall’incontro, cercato o semplicemente subito, con i personaggi della ‘ndrangheta emiliana che rende ognuno di loro una vittima.Di estorsioni, di minacce, di fallimenti.

Il primo è Matteo Lusetti, che nel 2010 racconta ai carabinieri di Reggio di avere accumulato debiti per 25.000 euro e di essersi rivolto a Carmine Belfiore e Salvatore Sestito, detto Fiesta, per avere un prestito: 5000 euro, da restituire con un interesse del 20%. Non ci riesce e quando Fiesta lo avvicina dicendogli: “Vuoi prendermi in giro? Vuoi fare il furbo?” gli lascia la sua Honda Civic in pegno perché “Volevo evitare lo scontro fisico ed eventuali ritorsioni da parte dei suoi amici calabresi”.

Il Pubblico Ministero avrebbe voluto ascoltarlo in aula, Matteo Lusetti, in queste udienze di metà ottobre, ma quando i carabinieri si sono presentati a casa sua per accompagnarlo in tribunale la madre ha detto loro candidamente che si era trasferito in America per paura.
Le pressioni della ‘ndrangheta hanno fatto fuggire da Reggio anche Paolo Antonio Capone, che nel 2011 cercava soldi in tempi rapidi e senza fatica attraverso operazioni finanziarie fittizie. Antonio Valerio, uno degli organizzatori dell’associazione mafiosa a processo, gli procura circa 1.000 euro pretendendo un onorario di 500 e quando Capone ritarda, non si fa trovare e si trasferisce al sud, lo raggiunge con telefonate dai toni non proprio cordiali: “Gran cornuto, dove sei? Scappi via, pezzo di merda!”. Questo è quanto ricostruito dai carabinieri di Modena attraverso le intercettazioni ma in aula Capone dice di essere andato in Puglia per motivi di famiglia; dice di non aver mai ricevuto minacce.

E’ una storia già vista e sentita con altri testimoni del processo: la paura è palpabile, annacqua le loro memorie, li spinge a negare di avere detto frasi contenute in verbali che loro stessi hanno firmato, o addirittura registrate su file che contengono la loro voce. E il presidente del collegio dott. Caruso deve ricordare anche a Capone, come a tanti altri, che per falsa testimonianza o reticenza si può subire una condanna che va da due a sei anni.

Con Iller Bertozzi io ho lavorato assieme, trent’anni fa, prima a Radio Venere e poi in TV a Retemilia. Era un bravo venditore di pubblicità, mestiere per il quale aveva abbandonato la divisa di vigile urbano. Poi la sua vita ha preso una brusca sterzata ed è finito in manette al rientro in Italia dal sud America: beccato con un grosso quantitativo di droga e portato in carcere a Milano.

E’ lì, dice, che ha incontrato e conosciuto Antonio Valerio ed Eugenio Sergio. Quando ha bisogno di soldi, nel 2011, si rivolge a loro e a Gaetano Blasco che glieli danno prendendo a garanzia degli assegni firmati dal figlio. Poi c’è una storia abbastanza penosa di telefonate, richieste, dilazioni, scuse, restituzioni parziali.

Non sono grandi cifre stando alle intercettazioni: poche migliaia di euro, che davanti al tribunale Bertozzi sostiene di avere restituito senza interessi: “Senza pagare un euro in più”. Ma se non paghi un euro in più, viene da pensare, gli usurai si arrabbiano.

Qualunque sia la verità due fatti sono certi: l’Amnesia, il bar lounge di cui Iller Bertozzi è proprietario e il figlio è gestore, è andato a fuoco due volte, nel 2002 e nel 2013. La prima per cause dolose a Buco del Signore, la seconda nella nuova sede di Cella. E’ crollata anche una parete, la seconda volta, mandando all’ospedale quattro vigili del fuoco.
Gaetano Blasco lo conosce molto bene anche Valbon Baraku, muratore e costruttore albanese originario di Tirana, che nel 2006 apre assieme a lui e ad un terzo socio la BMB srl, con la speranza di trovare lavori e cantieri. Il sogno dura poco e tre anni dopo Valbon presenta una denuncia alla Guardia di Finanza. Se la sua storia è vera, e non si capisce perché dovrebbe essere falsa, Blasco si è impossessato dell’azienda e della sua sede dove ha nascosto armi e divise false da carabinieri, ha falsificato la firma di Baraku per avere piena agibilità dei conti correnti, ha aumentando i fidi senza che nessuno al Credem di Villa Cella gli chiedesse dove erano finiti i suoi soci, ha indebitato la BMB per centinaia di migliaia di euro e le banche, dopo il fallimento nel 2010, sono andate a batter cassa da Baraku portandogli via la casa. Lo hanno ridotto in rovina e dopo la denuncia alla Guardia di Finanza è stato isolato, lasciato senza lavoro, minacciato da Blasco che con lui si vantava di avere mandato in fumo i tetti nei cantieri di tre imprese: “Perché se sei capace di bruciare e picchiare, ti imponi”.

In aula l’avvocato di Blasco cerca di smontare la sua ricostruzione e gli chiede perché mai si dovrebbe credere che Baraku abbia pagato per colpe di altri. Lui alza la testa e risponde con voce tagliente: “Perché io non ho mai avuto la possibilità di scegliermi un avvocato bravo come lei”.
Una risposta falsa l’albanese Valbon Baraku comunque la butta fuori, durante la sua testimonianza, quando il procuratore Mescolini gli chiede: “Lei è mai stato condannato?
No”.
Ma il PM la sua storia la conosce bene e gli rammenta una rapina, poco dopo il suo arrivo in Italia. Baraku abbassa la testa e il no diventa un sì, accompagnato da un groppo in gola. A testimoniare, in quel momento, si vede la schiena piegata di una vittima, di un perdente. Eppure Valbon Baraku è uno dei pochi che ha il coraggio di confermare le denunce fatte a suo tempo, di “ricordare” ciò che normalmente tanti altri, al microfono di Aemilia, invece “non ricordano”.

Come lui anche Nierzgoda Beata ricorda, ed è normale perché certe frasi non si dimenticano: “Se rimani senza un piede, come fai a camminare?”. Oppure la più truculenta: “Noi la terra non la concimiamo con sangue di bue; usiamo il sangue buono!” Beata è titolare della Euroservice Green srl, impresa di giardinaggio che ha sede in affitto nelle verdi campagne di via Cattania, tra Novellara e Campagnola Emilia. Un suo dipendente, Roberto Ferrari, diventato il suo compagno o semplice convivente, o tutte e due le cose assieme, apre nello stesso luogo una seconda società, la Naturalmente srl, che offre gli spazi dell’azienda agricola per convegni, feste e matrimoni. Con lui c’è un altro socio, Aniello D’albero, che un bel giorno porta nella loro casa Antonio Valerio, disponibile ad acquistare la Naturalmente srl e risolvere i problemi finanziari venuti a galla. Beata non è convinta di questa trattativa e vorrebbe restarne fuori, ma a casa sua nel 2010 cominciano a farsi frequenti le visite di Valerio che sostiene di essere il padrone di tutto.

E’ accompagnato spesso da Antonio Turrà, braccio operativo della cosca, che secondo la richiesta di arresto presentata dal procuratore Mescolini nel novembre 2014 “detiene armi da fuoco ed è costantemente a disposizione per azioni di minaccia e danneggiamento”. E’ lui che cerca di ammutolire Beata e Roberto con quelle frasi che i due ricordano in tribunale.

Le versioni cambiano: “Si lavora male senza le mani”, oppure: “Con solo tre dita”. La sostanza è la stessa, ed è molto chiara.
In questa Spoon River emiliana le storie non hanno mai lieto fine: le aziende coinvolte quasi sempre falliscono, i protagonisti rimangono in braghe di tela quando non va peggio. Il corposo puzzle di usure, estorsioni, danneggiamenti e minacce che il pubblico ministero sta ricostruendo in queste udienze di ottobre mostra spesso anche l’inevitabile corollario della violenza.

Come quella subita dal sessantenne costruttore reggiano Brenno Cerri, che chiama a lavorare in un cantiere a Parma la B&V Costruzioni di Blasco e Valerio. Quando litigano nel febbraio 2012, perchè Cerri si lamenta dei lavori non finiti ma i due vogliono essere pagati tutto e subito, Gaetano Blasco ad un certo punto prende un’ascia da cantiere e fa per calargliela in testa.

E’ la mano di Antonio Valerio che lo ferma, ed è sempre lui ad accompagnare via Cerri con l’apparente intenzione di calmare le acque. Ma quando arrivano alle scale e Cerri fa il primo gradino c’è una mano che lo spinge giù con forza e lo fa rotolare sulla rampa. Il reggiano si alza malconcio e lassù c’è Valerio che lo guarda fisso. Li denuncerà entrambi: Valerio e Blasco. Perché Cerri è uno di quelli che l’ha sperimentato sulla propria pelle e l’ha capito: non esistono buoni e cattivi. Esiste solo la cosca.

di Paolo Bonacini

Altezza righe+- ADim. carattere+- Stampa

Cerca in archivio per parola chiave

Archivi