A PROPOSITO DELL’USURA, DEL LAVORO E DEL PROCESSO AEMILIA: IL DENARO SPORCO CHE VIENE A GALLA

9 Settembre 2016

Paolo Bonacini, giornalista

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“Le testimonianze di questo inizio settembre, alla ripresa del processo Aemilia, ci ricordano che c’è sempre un bicchiere mezzo pieno. Ma in quell’altro mezzo bicchiere c’è il vuoto che si riempie di cattive pratiche capaci di contaminare a fondo le relazioni di comunità, di inquinare le coscienze di tanti e ben oltre la stretta cerchia degli affiliati alle cosche mafiose”.

IL DENARO SPORCO CHE VIENE A GALLA

A proposito dell’usura, del lavoro e del processo Aemilia

La cartina geografica del rapporto Eurispes 2016 sulla diffusione dell’usura nel paese, pubblicato il 7 settembre, mostra una Emilia Romagna colorata di un bel verde arcobaleno, con la sola eccezione di Parma dove sventola un intenso smeraldo.

Non sono i colori della speranza; semmai quelli dell’amaro risveglio. Perché il verde è l’indicatore della permeabilità dei territori allo strozzinaggio.

Tre milioni di famiglie in Italia, più di una su dieci, si sono rivolte a privati (non banche, non parenti, non amici) per ottenere prestiti: 82 miliardi di euro il giro d’affari complessivo nel 2015, tanto quanto l’intero export delle imprese meccaniche italiane. Con interesse medio calcolato intorno al 120% annuo, a cui va aggiunto il sommerso di cui non si viene a conoscenza.

In questo scenario l’Emilia Romagna è sul podio delle regioni con il maggior incremento dei reati d’usura: il numero è triplicato dal 2008 al 2014 e la fetta che si consuma da Piacenza a Rimini è il 12,1% della torta nazionale.

Meglio, anzi peggio, hanno fatto solo Campania e Lombardia. Sempre terzi siamo anche nell’indicatore delle risorse destinate alle vittime dell’estorsione: 662mila euro l’ultimo anno, dietro le irraggiungibili Puglia e Campania.

Ciliegina sulla torta, Parma è la capitale nazionale della permeabilità all’usura. Dal 2008 di là dall’Enza è aumentato tutto: i reati legati al riciclaggio, le denunce, le lesioni, le estorsioni, il tasso di disoccupazione, i beni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata. Tutto meno il potere d’acquisto, ma questo è un dato comune alle famiglie dell’intero stivale: una su due dichiara nel 2016 di avere difficoltà ad arrivare a fine mese.

Viviamo dunque in una Usury Valley: l’Emilia Romagna? O meglio ancora in una Money Laudering Valley, il distretto per eccellenza del terzo millennio nel lavaggio e nel riciclaggio del denaro sporco?

Le testimonianze di questo inizio settembre, alla ripresa del processo Aemilia, ci ricordano che c’è sempre un bicchiere mezzo pieno, nel quale la capacità investigativa che tira a galla il marcio e la volontà di portare a sentenza un numero incredibile di fatti delittuosi e di protagonisti coinvolti, versano speranza per il futuro. Ma in quell’altro mezzo bicchiere c’è il vuoto che si riempie di cattive pratiche capaci di contaminare a fondo le relazioni di comunità, di inquinare le coscienze di tanti e ben oltre la stretta cerchia degli affiliati alle cosche mafiose. Spingendo al silenzio, all’omertà, alla reticenza, o peggio ancora ad archiviare come affare un crimine, come dialettica una sopraffazione, come trattativa una intimidazione.

Renzo Melchiorri, Giovanni Gangi, Francesco Bonacini: tre imprenditori con altrettante aziende rispettivamente a Castellarano, Parma e Casalgrande. I loro racconti testimoniano quanto sia stata dura la crisi, ma anche quanto fragili siano le scorciatoie proposte dalla criminalità e quanto profonde le ferite lasciate.

  • Il primo nega di avere ricevuto minacce ma non sa spiegare perché abbia saldato in fretta con uno sconosciuto, Antonio Silipo, oggi già condannato, un debito di 50mila euro per forniture di carburante. Col legittimo creditore aveva sempre detto di essere senza soldi. “Guardi che ci deve dire le cose che sembra non voler dire” lo bacchetta il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso dopo le sue risposte evasive. “Minacce pesanti non proprio… era insistente… due volte al giorno…” risponde imbarazzato, “ma…”. Ma dopo l’incontro con Silipo era andato alla Polizia e aveva capito con chi aveva a che fare.
  • Il secondo, Gangi, era titolare della Group Euro Service srl, “con una sessantina di dipendenti”, dice durante la testimonianza, che pagava in modo piuttosto creativo: “una parte in busta paga e una parte fuori”. Per quel fuori che non chiama mai nero, e per altre operazioni extracontabili di cui tiene nota la segretaria in un taccuino che lui non riconosce, ha ricevuto contante, secondo le ricostruzioni dell’accusa, per oltre 700mila euro attraverso le società fittizie che fanno riferimento a Giuseppe Giglio, Carmine Belfiore e Gianni Floro Vito, uomini di spicco della ‘ndrangheta emiliana. Gangi restituì il prestito nel 2012 pagando fatture false da loro emesse per oltre un milione di euro, con un interesse annuo del 197%. “Floro Vito l’ha mai minacciata?” gli chiede il Pubblico Ministero Gianni Mescolini. “Non ricordo…” è la risposta.
  • Francesco Bonacini invece risponde con voce sicura ed ha buona memoria. Era il legale rappresentante di una azienda di piastrelle, la Star Gres srl di Casalgrande. Nel 2012 un ex socio gli presentò Giuseppe Giglio intenzionato ad acquistare la sua impresa. Vendette a lui e a Floro Vito una linea di produzione, dopo aver emesso fatture false per riempire il conto corrente del ramo ceduto. E già che c’era si fece prestare 23mila euro in contanti che restituì con un interesse usuraio del 307%. Dalla vendita non portò a casa un euro perché, ha detto in tribunale, “attivo e passivo erano in equilibrio nello stato patrimoniale”.

Ma la corrispondenza tra attivo e passivo è obbligatoria in tutti i bilanci e non spiega nulla. Con la stessa logica si potrebbe avere a costo zero, per restare nel distretto ceramico, la Mapei di Squinzi. Sempre naturalmente che lui accetti.

di Paolo Bonacini

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